giovedì 18 luglio 2013

The hurt locker



Se come a me vi è sfuggito al cinema è da vedere.







Il protagonista mentre disinnesca una bomba. 


Ambientato durante la guerra in Iraq il film racconta la storia di una unità speciale che ha il compito di prevenire gli attentati dei kamikaze. Il protagonista, arrivato a sostituire il predecessore, deceduto in missione, è un uomo che non conosce la paura. Anzi sembra provocarla e sfidarla in ogni occasione. Si sta sempre con il fiato sospeso per la paura che prima o poi capiti l'inevitabile.


Nel finale di The Hurt Locker si alza il tono metaforico: il civile inginocchiato e il sergente James sono entrambi uomini-bomba. L’uno a livello materiale, l’altro ideale; ormai lo si è capito, James non può vivere senza disinnescare. Più che le sovrapposizioni narrative (come la netta “sostituzione del figlio” con un bimbo iracheno), a risultare decisivi sono gli accostamenti visivi; in cerca del contatto diretto con il rischio, James si fa precedere dal lancio di un fumogeno bianco che sprigiona esattamente la stessa nebbia dell’esplosione: vuole anticiparsi, implicitamente già desidera il boato che otterrà nel finale.


Il medesimo trattamento di inconsce proiezioni è applicato a ogni personaggio: Elridge, marchiato dalla morte del superiore, è afflitto dall’atavico timore di fare la stessa fine; Sanborn si autoinganna e solo infine ammette l’aspirazione alla paternità. 


In generale, "The Hurt Locker" è durissimo da vedere – sequenze thriller e tensione insopportabile: i primi dieci minuti ci scoppiano addosso, graniti di terra e imperlati di sangue – e ancora più duro da raccontare, perché punta forte sulle affermazioni negative; oltre alla tripartizione dei protagonisti, uno è ferito, l’altro torna a casa, il terzo sceglie la guerra, bisogna dunque ascoltare ciò che viene taciuto: l’origine delle cicatrici di James, la sua ostinazione paradossale sulle sorti di uno sconosciuto, il grigiore privato di Sanborn appena celato dai modi di circostanza (“Se muoio non se ne accorge nessuno”). E soprattutto l’ultimo dialogo: la riflessione sull’indole deviata del sergente è una contro-scena madre, dato che i soldati si interrogano a lungo, azzardano ipotesi e non trovano risposta. “Non ci penso”, dice James: la regista ha sfrattato il messaggio dall’Iraq in fiamme, tutti restano segnati solo dall’aderenza al pericolo che prima avevano respinto. 


“Hurt locker” è un termine sportivo che indica il limite massimo del dolore.